Il Glasgow Climate Pact
“L’ennesimo fallimento”. O ancora: “tanto rumore per nulla”. Ma anche: “non tutto però è da buttare”. Sono solamente alcuni dei primi commenti a caldo pronunciati al termine del vertice sul clima di Glasgow, svolto dal primo al tredici novembre 2021, sufficienti però per avere una fotografia emblematica dell’incertezza che si respira intorno a ciò che si è deciso alla Cop26. Dopo due estenuanti settimane, fatte di incontri intensi, resistenze e negoziati serrati, i delegati dei duecento paesi riuniti alla Conferenza delle Parti (Cop26) hanno siglato un accordo globale di massima, denominato Glasgow Climate Pact o patto di Glasgow, finalizzato in buona sostanza a velocizzare il contrasto ai cambiamenti climatici in corso delineando al contempo modalità per il suo finanziamento futuro. È opportuno sottolineare che la conferenza sul clima costituisce un passaggio istituzionale di certo fondamentale, in special modo per sensibilizzare l’opinione pubblica e tenere acceso il dibattito politico, ma anche particolarmente delicato, stante la varietà e la complessità degli interessi in gioco, spesso contrapposti, che risulta estremamente difficile far confluire in una direzione univoca, per quanto si tratti di aspetti legati in maniera indissolubile alla sopravvivenza della nostra specie. Tra chi vede il bicchiere mezzo pieno, e chi invece mezzo vuoto, proviamo quindi ad analizzare in breve i principali risultati raggiunti.
I principali impegni assunti
Innanzitutto, dal documento finale scaturisce l’impegno a mantenere l’aumento della temperatura globale sotto un grado e mezzo rispetto all’epoca preindustriale, in casi estremi sotto i due gradi ma solamente come piano di riserva. Limiti, tra l’altro non tassativi, frutto degli allarmi lanciati dalla comunità scientifica. Parallelamente, i paesi firmatari del documento finale si impegnano a tagliare da qui al 2030 almeno il 45% delle emissioni di gas serra rispetto al 2010. È la prima volta che vengono stabiliti obiettivi minimi di decarbonizzazione. Per raggiungere tale traguardo, un ruolo di particolare importanza verrà assunto dai cosiddetti Nationally Determined Contributions (NDC), vale a dire gli impegni di decarbonizzazione dei vari paesi da aggiornare con cadenza annuale, e non più quinquennale, termine quest’ultimo considerato eccessivamente lungo. Degno di nota, poi, l’accordo che mira a porre fine alla deforestazione entro il 2030, storico poichè sottoscritto da alcuni tra i principali responsabili, ovvero Russia, Cina e Brasile. Così come storica è la decisione di Cina e Stati Uniti, i due più grandi emettitori al mondo, di collaborare sui dossier relativi ai cambiamenti climatici.
Accordo sul clima “annacquato”
Tra gli aspetti negativi rivangati da coloro i quali considerano l’accordo raggiunto come “annacquato”, emerge senza dubbio il mancato accoglimento dell’invito a eliminare (phase out) le centrali a carbone e i sussidi destinati alle fonti fossili. Eliminazione che si è trasformata, purtroppo, solamente in una riduzione (phase down). È stato certamente questo il passaggio più difficile e quello che ha ricevuto le critiche più aspre. Sulla decisione finale hanno pesato le forti ingerenze di Cina e India durante la plenaria conclusiva. Allo stesso modo, la Cop26 non ha portato i risultati inizialmente auspicati in materia di finanza climatica. La realizzazione di un fondo da cento miliardi di dollari l’anno, necessario per agevolare i paesi poveri nel processo di decarbonizzazione e per ristorarli dei danni subiti a causa dei cambiamenti climatici, è slittata infatti al 2023. Resta il fatto che sarà esclusivamente il tempo a rivelarci effettivamente se i partecipanti alla Cop26 hanno inciso realmente con le misure adottate o se, al contrario, si è trattato di un inutile quanto dannoso accordo al ribasso.
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