Informazioni generali

Il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi che ancora non c’è

I criteri di localizzazione adottati

La ricerca di un’area potenzialmente idonea a ospitare il deposito nazionale di rifiuti radioattivi si sta rivelando più difficile di quanto originariamente previsto, soprattutto per via della forte opposizione manifestata quotidianamente dalle persone che abitualmente vi risiedono. Il gruppo Sogin, ovvero la Società di stato responsabile del decommisionig degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi, ha individuato almeno 67 aree tecnicamente adatte, 22 delle quali sono situate in provincia di Viterbo, nel Lazio. Per fare ciò, nel 2014 l’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ha fatto affidamento su 15 criteri di esclusione – tra cui, ad esempio, l’elevato rischio vulcanico e sismico, la fagliazione del suolo, la presenza di aree naturali protette e di insediamenti civili – e su 13 criteri di approfondimento – tra cui rientra, anche qui a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, l’interesse archeologico e storico, le produzioni agricole, gli habitat e le specie animali a rischio. Dalle risultanze emerse è nata la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (CNAPI).

Depositi temporanei inadeguati

Attualmente, le scorie prodotte nel nostro paese, derivanti principalmente da installazioni nucleari e da attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca, sono stoccate in vecchi depositi temporanei, con capacità ricettive in progressivo esaurimento e che necessitano di frequenti e onerosi interventi di manutenzione. Solamente in Italia se ne contano almeno venti, perlopiù siti nucleari in fase di smantellamento. Il deposito nazionale, dotato di barriere ingegneristiche all’avanguardia e realizzato con materiali speciali in grado di confinare la radioattività, andrebbe a sostituire quindi i vari depositi temporanei fino a questo momento esistenti, inglobando all’incirca 95 mila metri cubi di rifiuti radioattivi, di cui 17 mila a media e alta attività. Il vantaggio sarebbe duplice. Da un lato, infatti, si risparmierebbero somme ingenti legate all’esercizio e alla manutenzione dei siti, stimate tra l’uno e i quattro miliardi per ognuno di essi. Dall’altro lato, invece, si garantirebbe l’isolamento dei rifiuti radioattivi fino al punto in cui la radioattività non possa più costituire una concreta minaccia per la salute dell’uomo e per l’intero ambiente circostante.

Il contributo socioeconomico e l’impulso occupazionale

In linea con i Paesi che hanno già localizzato il deposito nazionale, è previsto il riconoscimento di un contributo in forma economica da devolvere in favore del territorio su cui sorgerà effettivamente la struttura, fissato con decreto del Ministero della Transizione Ecologica in modo da attenuare le ricadute sociali e occupazionali legate al progetto. Proprio dal punto di vista strettamente occupazionale, quattro anni di cantiere genereranno, stando alle prime stime, 4 mila posti di lavoro per ciascun anno. È importante sottolineare, da ultimo, come l’Unione Europea con la Direttiva 2011/70/EURATOM del Consiglio, la quale “istituisce un quadro comunitario per la gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi”, ha espressamente escluso la possibilità che uno Stato membro affidi i rifiuti radioattivi prodotti nel suo territorio a un altro Stato, magari già in possesso di adeguate strutture.

Fonti:

Francesco Di Raimondo