Affare odioso, vigliacco, che priva della dignità personale lavoratrici e lavoratori in buona parte del territorio italiano, da Nord fino a Sud. Parliamo del caporalato, fenomeno che riguarda migliaia persone e che un Paese civile, o che tale si considera, non può assolutamente tollerare.
Di cosa stiamo parlando
Cominciamo partendo dalla definizione. Caporale è colui che, svolgendo un’attività che può essere considerata di intermediazione, dapprima ricerca e arruola manodopera, rigorosamente a bassissimo costo, e in un secondo momento la dirotta presso luoghi di lavoro in cui ne è richiesta la presenza, percependo, per la prestazione di tale servizio, un compenso originariamente pattuito. Il fenomeno interessa in particolar modo il settore agroalimentare e dell’edilizia, anche se non mancano casi diffusi in quello del commercio e della ristorazione. Paghe da miseria, turni massacranti e completa assenza di contributi e di copertura contro gli infortuni fotografano una realtà caratterizzata dal più totale sfruttamento. Gli irregolari che versano in questo stato oscillerebbero, secondo quanto dichiarato dall’Osservatorio Placido Rizzotto, che con cadenza biennale redige un apposito rapporto sulle agromafie e sul caporalato, tra i 400 e i 430 mila, di cui almeno 130 mila di loro si troverebbero in condizioni di grave vulnerabilità.
La cosiddetta legge sul caporalato
Dieci anni fa, nel 2011, a seguito di violente rivolte guidate da braccianti e di numerose campagne di mobilitazione, viene introdotto con decreto-legge del 13 agosto 2011, n. 138, il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, previsto e punito dall’articolo 603 bis del Codice penale, e modificato successivamente dalla legge 199/2016, la cosiddetta legge sul caporalato. Nello specifico, la disposizione codicistica commina sanzioni di carattere detentivo non solo a carico del soggetto reclutatore ma, allo stesso tempo, anche del datore di lavoro, in quanto si avvale concretamente delle prestazioni della persona reclutata. Rimane comunque il fatto che la legge, da sola, nonostante abbia rappresentato un primo importante passo in avanti nella lotta al “business degli irregolari”, non può rappresentare il rimedio definitivo a quest’annoso problema. Esso, difatti, sembra a oggi tutto fuorché sotto controllo.
Alcune contromisure
Diverse iniziative sono state portate avanti nel corso di questi ultimi anni e altre sono tuttora in divenire, complice soprattutto il maggiore interessamento dell’opinione pubblica sul tema. Nel 2017, giusto per fare un esempio, è nata l’associazione internazionale “No Cap”, formata da attivisti e volontari, impegnati assiduamente nella promozione e diffusione di un modello di filiera etica, equa e trasparente, capace di assicurare contemporaneamente prezzi giusti ai produttori e un’ampia tutela dei diritti fondamentali ai lavoratori. Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca, inoltre, la creazione di un’etichetta narrante, strumento di comunicazione già abbracciato da importanti marchi. Una sorta di contro etichetta, finalizzata a fornire al consumatore finale informazioni aggiuntive in merito alla regolarità del processo lavorativo, alla tracciabilità dei prodotti e alla lotta al caporalato.
Fonti: