Informazioni generali

O l’acciaio o la vita. Il caso ILVA.

Un gigante industriale nel mezzogiorno

Parlare della città di Taranto non può non rievocare le vicende che ruotano attorno allo stabilimento dell’Ilva, il più importante complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio presente in Europa, finito però al centro di numerosi scandali e vicende giudiziarie.

La storia del polo siderurgico, oggi parzialmente in mano ad ArcelorMittal, è datata. Nata come società pubblica nel lontano 1965 e in seguito acquisita dal gruppo Riva nel 1995, la vita dell’acciaieria è stata da sempre contraddistinta dalla ricerca di un difficile punto di equilibrio tra due principi fondamentali, entrambi di matrice costituzionale. Da una parte la tutela della salute e, più in generale, dell’ambiente, sia dei dipendenti che quotidianamente vi operano all’interno, sia della fascia di popolazione che risiede nelle sue immediate vicinanze. Dall’altra parte la tutela del lavoro, ovvero l’interesse costituzionalmente garantito al mantenimento di stabili livelli occupazionali, da sempre tema particolarmente caldo date le gravi conseguenze socioeconomiche scaturenti da un’eventuale chiusura.

Il bilanciamento tra principi costituzionali

I dibattiti sul quale sia l’interesse da far prevalere si sprecano. La chiusura definitiva dell’impianto siderurgico permetterebbe di porre rimedio, nel modo sicuramente più veloce, a un dramma sanitario che non conosce fine. I rischi per la salute, già portati all’attenzione delle istituzioni, saltano perentoriamente fuori nel 2012. I risultati di due perizie epidemiologiche mettono finalmente nero su bianco la correlazione tra l’aumento spropositato dei decessi nella città pugliese – circa 11 mila nel periodo compreso tra il 2004 e il 2010, avvenuti principalmente per patologie cardiovascolari e respiratorie – con l’emissione in atmosfera, a opera proprio dello stabilimento, di gas, vapori e sostanze sia solide che aeriformi. Per contro, il proseguimento dell’attività si fonda su due temi cruciali. La salvaguardia dei posti di lavoro, già citata in precedenza, è uno di questi, possibile solamente a patto di non spegnere, o almeno non completamente, gli impianti. Il contraccolpo sarebbe disastroso, con circa 11 mila lavoratori, tra l’altro difficilmente reinseribili nel mercato del lavoro, rispediti a casa. Il secondo tema, invece, è del tutto economico ed è strettamente legato all’importanza strategica che l’Ilva riveste per il nostro territorio. Essa, da sola, vale l’1,4% del Prodotto Interno Lordo nazionale.

Ambiente svenduto

Venirne a capo non è così semplice e, soprattutto, richiede molto tempo. Lo stesso che ha impiegato la Corte d’Assise di Taranto per prendere una posizione netta sul tema, affermando, nel corso del processo “Ambiente Svenduto”, che quello causato dall’ex Ilva di Taranto può essere considerato a tutti gli effetti un disastro ambientale. Motivo per cui, lo scorso 31 maggio, i giudici di primo grado hanno accolto l’impianto accusatorio messo in piedi dalla procura tarantina, emettendo una sentenza dal sapore storico, quasi liberatorio. Dopo anni di impaziente attesa, infatti, i 47 imputati chiamati a rispondere di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro sono stati tutti condannati per i reati loro ascritti.

Fonti:

Francesco Di Raimondo